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Questo il testo integrale del discorso pronunciato dalla Signora Rita Ferlito, rappresentante dei 9 figli dell’Ispettore Michele Ferlito, direttore dei 3 istituti penitenziari della città di Firenze, durante l’Alluvione del 1966, in occasione della cerimonia all’ex carcere de Le Murate dello scoprimento della lapide in memoria dell’Ispettore Michele Ferlito, che si contraddistinse per diversi episodi eroici, scoperta il 4 novembre 2017 in occasione del 51° Anniversario dell’Alluvione.
Sottosegretario Ferri,
Presidente Biti,
Autorità tutte qui presenti,
Figlie e Figli dell’Ispettore Ferlito,
Rev.me Suore di San Giuseppe dell’Apparizione,
Signore e Signori,
Oggi insieme ai miei fratelli, grazie al Comune di Firenze nella persona della Presidente del Consiglio comunale, Caterina Biti, che con grande sensibilità ha accolto subito il nostro appello, abbiamo la gioia di realizzare un sogno che inseguivamo da diversi anni: riconoscere a nostro padre i giusti meriti per quanto avvenne in quel lontano Novembre 1966
e vedere finalmente
che Firenze, l’Alluvione e le Carceri Fiorentine
si sono riappropriate di un protagonista di quel difficile e tragico evento.
Si chiude così per noi un’avventura meravigliosa, un lungo viaggio nella memoria, iniziato più di un anno fa in occasione del 50° anniversario dell’alluvione, che ha consentito a me e ai miei fratelli di ricostruire un frammento importante della vita di nostro padre:
i tre splendidi anni trascorsi a Firenze dal 1963 al 1966.
Di quei tre anni, ma soprattutto dell’evento che lega l’Arno alle Carceri, che si trovavano proprio nel Quartiere Santa Croce, una delle zone più colpite della città,
si erano completamente perse le tracce,
e il nome di nostro padre era stato cancellato dalla memoria di quei giorni, nonostante si fosse esposto in prima persona in quei drammatici momenti.
Per oltre 40 anni, dal 1934 al 1976, nostro padre é stato funzionario dell’Amministrazione Penitenziaria e sin dal primo giorno ha amato profondamente il suo lavoro, applicando con passione il fondamentale principio che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità..”, sancito dall’art. 27 della Costituzione.[1] che egli stesso così definisce
“ […] un imperativo categorico per quanti […] hanno voluto assumersi il nobile compito dell’amministrazione della Giustizia,sia legiferando in merito, sia irrogando le pene,sia sorvegliando sulla loro esecuzione.”
riconoscendo in tal modo di avere di fronte sempre uomini e non solo colpevoli da punire.
Dover far conciliare il senso del dovere con il sentimento di umanità è stato per nostro padre spesso motivo di grande sofferenza, che tuttavia non gli impedì durante la guerra nel lontano e buio 1944, mentre si trovava ad Orvieto, di mettere in pericolo il suo lavoro e la sua stessa vita e, di fronte a dei semplici ostaggi, che certamente sarebbero stati giustiziati sommariamente, la sua scelta fu senza indugio quella dell’ umanità ed in piena notte li fece uscire dall’Istituto.
Anche a Firenze, ormai all’apice della carriera, non smise mai di applicare questi principi, come appare evidente in un articolo de La Stampa dell’aprile del 1966 in cui un giornalista nell’Istituto di S. Verdiana, intervista una detenuta pluriomicida condannata all’ergastolo, che dopo aver risposto rassegnata:
“Debbo pagare per quello che feci quella sera di pioggia”,
aggiunge di non aver perso la speranza di tornare un giorno in libertà.
Il giornalista prosegue e racconta che non sembra più la fredda e spietata assassina di 20 anni prima, anzi riesce persino a sorridere rivolgendosi “…all’ispettore generale Michele Ferlito…”. Conclude poi l’articolo sottolineando come il dott. Ferlito sia riuscito ad umanizzare la pena
“della friulana a forza di comprensione e di rigore morale.”.(2)
Questi ultimi due aspetti stridono, ma è pur vero che solo con il RIGORE nel rispetto delle leggi e nella coerenza del trattamento dei detenuti, senza mai dimenticare l’UMANA COMPRENSIONE delle sofferenze di chi, per quanto colpevole, è privato della libertà ed è allontanato dai suoi affetti più cari, è possibile costruire, giorno dopo giorno, quel rapporto di fiducia reciproca, che è alla base di qualsiasi trattamento.
Affettuosamente lo chiamavano “zu Michele”, perché avevano fiducia in lui, sapevano che non li avrebbe mai ingannati e loro hanno risposto al suo impegno sincero sempre con grande generosità e rispetto.
Ed è proprio durante l’Alluvione che, anche se molti detenuti scelsero la fuga, molti altri non esitarono a rischiare la propria vita per aiutare noi e altre due famiglie a raggiungere i piani più alti dell’Istituto di S. Teresa.
In prima persona si prodigò per portare soccorso alla famiglia del dirigente della Prigione Scuola, Dott. Giuseppe Pasciolla, che abitando al piano terra era rimasto intrappolato nella sua casa, da dove non c’era più alcuna via d’uscita.
Con l’aiuto dei detenuti e del personale anche la famiglia del M.llo Filia era stata portata in salvo sul nostro terrazzo, da dove poi fu possibile a tutti raggiungere i piani superiori dell’Istituto
e solo allora anche nostro padre, per ultimo, lasciò la nostra casa[2] di Via Borgo la Croce.
Con l’instancabile collaborazione dei due comandanti degli Istituti, i M.lli Palmerio Filia e Bruno Pirazzoli,[3] nostro padre con coraggio e determinazione seppe gestire l’emergenza, evitando irreparabili conseguenze.
(Come avete già sentito, unico detenuto che perse la vita in quella tragedia fu il giovane Sonnellini, che nel tentativo di evadere annegò nell’acqua fangosa che scorreva sotto il muro di cinta dal quale si era lanciato e, dei 91 detenuti evasi approfittando della naturale confusione in momenti così drammatici, solo 25 rimasero latitanti.)
Infine per il drammatico episodio del 6 Novembre, che oggi ricordiamo, nostro padre affrontò proprio in questo piazzale i detenuti in rivolta parlando
“con loro a cuore aperto ascoltandone tutti i bisogni
ed ogni loro preoccupazione”
Nelle sue memorie infatti, rivolgendosi agli operatori penitenziari, afferma
è “autentica saggezza […] comportarsi apertamente, sinceramente e fiduciosamente nei loro riguardi.”,
aggiungendo che, se l’obiettivo è restituire alla società persone cambiate e consapevoli dei propri errori, è necessario compenetrarsi nelle loro pene e sofferenze.
I suoi sono tutti semplici consigli, che non vogliono essere mai dotte lezioni, ma solo suggerimenti.
A tal proposito mio fratello Giuseppe, che ha avuto la fortuna di immergersi nei sentimenti più profondi di nostro padre nei suoi ultimi anni, ha detto di lui:
“Semplicemente un uomo, che, sceso dalla cattedra, dimostrava l’umanità di voler insegnare con “il lavoro e l’esempio”, … quale novello “Aiace” del nostro tempo, armato, non di spada ed onore militare, ma della parola e dell’orgoglio di funzionario dello Stato.
Lui, come “Aiace”, giorno per giorno scendeva in campo, svolgeva la sua missione “sporcandosi le mani”, non di sangue, ma di miserie umane e le faceva intimamente sue per poterle meglio combattere e lenire.” (5)
E di lui ancora il Personale, nel giorno del suo congedo, scrisse
“Luminoso esempio di scibile Penitenziario, maestro di vita, insigne superiore ed amico di elette virtù”
Questo luogo è dunque strettamente legato al nome di nostro padre che qui ha lavorato intensamente per tre anni, cercando di rendere la vita del detenuto sempre più umana, affinché la privazione della libertà non significasse anche l’annullamento della dignità individuale, nella profonda convinzione delle reali possibilità di recupero dei detenuti:
obbiettivo sicuramente difficile, ma non irraggiungibile.
In perfetta sintonia con il suo pensiero, è proprio la realizzazione di questo eccezionale progetto di riqualificazione delle Murate, voluto dal Comune di Firenze che, per il tramite del team guidato dell’Arch. Mario Pittalis e con la geniale collaborazione dell’Arch. Renzo Piano,
ha saputo restituire alla città questo storico edificio,
trasformandolo in un quartiere cittadino, vitale, pulsante di attività, inglobato nel tessuto urbano, pur mantenendo il ricordo di quello che era stato una volta.
Questo luogo, lasciata la sua vecchia funzione, è quasi il simbolo del cambiamento possibile, l’immagine di cosa dovrebbe essere il Carcere: un luogo che, se pure chiuso e isolato dal mondo esterno, deve diventare una risorsa per il cambiamento, un luogo dove il detenuto possa rivedere il suo passato e riprendere nuovamente le fila della propria vita nel rispetto delle regole, riacquistando senso di responsabilità e fiducia in se stesso.
Queste mura oggi non sono più un luogo di sofferenza, di isolamento, di esclusione, ma uno spazio aperto, un centro di aggregazione socio-culturale, punto di riferimento dei giovani studenti che frequentano l’attigua università.
Possa questa virtuale presenza di nostro padre essere
anche per loro di stimolo e modello.
L’evento di questo pomeriggio, che ha preso vita e si è infine concretizzato grazie all’immediata disponibilità della Presidente del Consiglio Comunale, Caterina Biti, è per noi il perfetto coronamento di questi lunghi anni di ricerche.
E questa targa, che per felice coincidenza viene apposta vicino all’originale portone da cui nostro padre entrò all’interno delle Murate in rivolta, esprime a pieno il riconoscimento per tutto quanto lui fece in quei giorni, e porta altresì a giusta conclusione la volontà espressa, già allora, dallo storico Sindaco Bargellini e dalla Sua Giunta nei confronti di un loro concittadino, segnalato per coraggio e altruismo.
Un grazie riconoscente va anche all’impegno costante dei giornalisti Franco Mariani e Mattia Lattanzi che, insieme a tante altre storie dimenticate, hanno fatto “risorgere dal fango” anche questa di nostro padre nelle pagine del libro “Firenze 1966 L’ALLUVIONE”, edito da Giunti Editore, ed alla rivista letteraria fiorentina Testimonianze, che ha dedicato un articolo alla nostra esperienza.
Per ultimo aggiungo che il nostro futuro impegno sarà quello di continuare a raccontare i fatti che legano le Carceri fiorentine all’Alluvione e a nostro padre, parlando ancora di lui perché le generazioni future possano conoscere la sua testimonianza e trarne insegnamento,
proprio come egli stesso più volte afferma nelle sue memorie.
Per tutto questo siamo qui a testimoniare ben TRE GENERAZIONI:
Noi figli che con lui abbiamo vissuto tutte queste esperienze
Tantissimi nipoti che hanno sentito dalla viva voce del loro amato nonno tutti i suoi racconti
I piccoli Federica, Daniele, Mattia, Azzurra, Giuseppe, Massimo, Tommaso che porteranno il testimone della memoria per le generazioni future.
Oltre ai tanti parenti e amici che hanno potuto apprezzare il suo affetto e la sua generosità, e che oggi sono qui numerosi a ricordarlo.
Grazie a nome mio e dei miei fratelli.
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Riprese video di Mattia Lattanzi.
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