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Questo il testo integrale del discorso pronunciato dal Giornalista Franco Mariani, Presidente dell’Associazione Firenze Promuove, da 24 anni organizzatore delle cerimonie ufficiali dell’Alluvione del 1966, in occasione della cerimonia all’ex carcere de Le Murate dello scoprimento della lapide in memoria dell’allora direttore, l’Ispettore Michele Ferlito, che si contraddistinse per diversi episodi eroici.
Sottosegretario Ferri,
Presidente Biti,
Autorità tutte qui presenti,
Figlie e Figli dell’Ispettore Ferlito,
Rev.me Suore di San Giuseppe dell’Apparizione,
Signore e Signori,
Tutti, chi più, chi meno, abbiamo presente quello che fu il dramma vissuto da Firenze e dai Fiorentini quel tragico 4 novembre 1966.
Non per niente questa mattina abbiamo ricordato – come ormai facciamo da 24 anni – le inermi vittime, prima celebrando una messa in loro memoria e poi lanciando la Corona d’Alloro del Comune nel fiume Arno dal centro del Ponte alle Grazie.
Vittime che, se è vero il Prefetto di allora fissò in numero di 35, oggi sappiamo furono molte di più, come abbiamo potuto appurare in questi ultimi anni io e il mio collega Mattia Lattanzi, e come abbiamo raccontato nel nostro libro sull’alluvione uscito l’anno scorso, e che proprio per la sua valenza storica, è stato diffuso anche assieme al quotidiano La Nazione.
Ancora oggi siamo alla ricerca di tutti i fascicoli aperti dalla Procura, e che ad oggi risultano inspiegabilmente scomparsi, non depositati, come invece vorrebbe la legge, all’Archivio di Stato. Ma io e Lattanzi non disperiamo e continuiamo a cercarli.
Ma questo pomeriggio siamo qui a ricordare un uomo e un funzionario dello Stato, l’Ispettore Michele Ferlito, che nel 1966 dirigeva i tre istituti penitenziari, tutti situati nel rione di Santa Croce, in pieno centro cittadino.
Il fiume Arno è qui dietro, a due passi, e quindi possiamo immaginare come l’acqua invase di buon mattino le celle e i carcerati.
Il racconto di quelle tragiche ore, con ben 93 detenuti evasi, su 240 complessivi dei 3 istituti, lo abbiamo grazie al servizio di Moreno Marcucci, pubblicato su “La Nazione” il 6 novembre 1966: “Verso le 18 di venerdì sera, quando ormai l’acqua aveva raggiunto il massimo dell’altezza, una ventina di detenuti del penitenziario di Santa Teresa hanno raggiunto il tetto dell’edificio e quindi sono riusciti ad arrivare, di tetto in tetto, fino in via Manzoni. Qui per lunghe ore hanno sostato sul tetto dell’istituto delle suore domenicane. Hanno chiesto di essere accolti, hanno chiesto qualcosa da mangiare promettendo che non avrebbero fatto alcun male alle suore. Le religiose, terrorizzate, hanno tentato di resistere tergiversando a lungo Poi i detenuti, che avevano trattato con le suore, se ne sono andati per la via dei tetti e nella notte si sono gettati a nuoto nelle acque di piazza Beccaria. Uno di loro, evidentemente poco pratico del nuoto, ha rischiato di annegare, ma sembra che sia stato slavato dai suoi compagni. Altri detenuti del carcere di Santa Teresa sembra abbiano guadagnato la libertà con lo stesso sistema Altri detenuti sono evasi anche dal carcere delle Murate. Uno dei detenuti che si era gettato a nuoto è morto annegato. Si saprà poi che si tratta di Sonnellini Luciano, di anni 25, residente a Borgo Baggiano (Pistoia). Il suo cadavere fu rinvenuto e prelevato da un mezzo cingolato in uno scantinato dell’edificio sito in Via dei Pepi, angolo via dell’Agnolo. “Si è gettato – riprende il racconto La Nazione – insieme ad altri, sperando di aggrapparsi a un grosso tronco d’albero, trascinato dalla corrente. ‘Ma dove vai?’, gli ha gridato una donna impaurita. ‘Vado a Montecatini…’, ha risposto ironico il detenuto. Poi ha annaspato inutilmente per aggrapparsi al tronco ed è stato travolto dalla piena. I detenuti, circa 240, erano stati portati fuori dalle celle e insieme a una trentina di agenti di custodia avevano trovato riparo sui tetti del carcere. Il terrore è esploso improvviso tra i detenuti; l’acqua aveva raggiunto i 3 metri e 70. Il direttore e le guardie hanno cercato di portare la calma, e la maggior parte, dei detenuti, sul loro esempio, hanno cercato di collaborare per cercare scampo. Anzi una quindicina di carcerati addetti ai lavori di cucina hanno compiuto generosi atti di solidarietà: sono usciti attraverso i fori praticati dagli evasi e hanno aiutato diverse persone che abitano nella zona a mettersi in salvo. Poi sono tornati nel carcere dove hanno continuato per tutta la giornata, anche ieri, nell’opera di sgombero dell’acqua e della melma dai locali. Dei 93 evasi 10 si sono ripresentati spontaneamente, 4 sono stati arrestati, gli altri sono ricercati. Un gruppo di loro rubò anche nell’ufficio di Giuseppe Nencioni, in via Manzoni 1.portando via quasi 10 milioni di. Un altro furto fu compiuto in un magazzini in via dei Servi all’angolo con via degli Alfani dove gli evasi rubarono sei canotti pneumatici, uno dei quali gonfio”.
Fin qui il racconto de La Nazione che non fa menzione, come tanti altri racconti dell’epoca di Michele Ferlito.
Si, perché tra le tante storie rimaste sepolte nel fango per 50 anni, fino a quando non l’abbiamo raccontata io e Lattanzi, oggi emerge con tutta la sua drammaticità, quella dell’Ispettore Michele Ferlito e della sua famiglia.
Così ci raccontò due anni fa quelle ora la Signora Rita Ferlito: “Quando l’Arno irruppe violentemente nella nostra casa, noi, assieme a nostro padre, riuscimmo a fuggire in modo rocambolesco, attraverso una piccola finestra del nostro terrazzo, e con l’aiuto di agenti e detenuti a cui mio padre aveva dato l’ordine di segare le sbarre con la fiamma ossidrica. Servendoci di alte scale a pioli entrammo in Santa Teresa, percorremmo lunghi corridoi già invasi dall’acqua alta, e infine raggiungemmo la parte sicura dell’istituto ai piani più alti. I più piccoli di noi furono portati a spalla da alcuni detenuti, che in quell’occasione mostrarono grande coraggio, vero sprezzo del pericolo e umana solidarietà. Con noi si misero al sicuro anche le famiglie del maresciallo Filia, comandante della casa di reclusione, e del dottor Pasciolla, dirigente della prigione scuola, di cui mio padre si caricò sulle spalle uno dei figli e la domestica, salvandoli da morte certa”.
Tutti quanti passarono la notte nei locali della sartoria, spaventati, senza sapere cosa stesse accadendo, mentre Ferlito cercava di tenere calmi i detenuti.
Era una situazione di grave pericolo in quanto alcuni detenuti, spaventati e presi dal panico, erano diventati minacciosi.
“Si correva – ricorda la signora Rita – il serio pericolo di essere presi in ostaggio, ma alcuni detenuti, a rischio della propria vita, fecero barriera davanti alla sartoria, impedendo ai compagni in rivolta di raggiungere quei locali. Intanto il personale di custodia, insieme a mio padre, tenevano calmi gli altri detenuti, riuscendo tra l’altro, con un abile stratagemma, a far rientrare la sera stessa molti di coloro che avevano tentato la fuga”.
Il giorno dopo, ritiratasi l’acqua, tutti rientrarono nelle loro postazioni.
“Tutto era fango e nafta ed un gran freddo ci penetrava fino alle ossa; ricordo che dovevamo vestirci per andare a letto, poiché l’umidità era dovunque, anche dove l’acqua non era arrivata. L’Arno ci aveva portato via i mobili, i vestiti, e tante altre piccole cose care legate alla nostra infanzia, soprattutto i nostri corredi, così amorevolmente preparati da nostra madre e che le casse squartate dalla violenza dell’acqua avevano sparso per le stanze. Unico piccolo tesoro, che ho ancora con me, è quanto resta del mio primo violino, che tanti anni prima aveva sentito le mie piccole dita scorrere sulle corde. Ma stavamo tutti bene”.
L’azione di Ferlito non fu solo limitata alle persone, ma anche ai beni dello Stato: entrando negli uffici di ragioneria, come raccontò lo stesso ragioniere, fece mettere al sicuro tutti i valori contenuti nella cassa corrente, ben due milioni di lire, oltre ad oggetti di valore dei detenuti, e diverse buste paga non ancora ritirate dal personale.
Soprattutto riuscì a sedare, rischiando in prima persona, la pericolosa rivolta scoppiata il 6 novembre, evitando che finisse in un bagno di sangue.
“La mattina del 6 novembre – ha lasciato scritto l’Isp. Ferlito – mentre ricevevo dal Maresciallo Pirazzoli le novità e le più recenti notizie, relativamente tranquillizzanti in merito alla situazione disciplinare e complessiva del Carcere Giudiziario (Le Murate), fummo avvertiti che in quell’Istituto – per un ritorno improvviso di fiamma – era cominciato l’ammutinamento tra i detenuti, di cui qualcuno era evaso mentre altri avevano già raggiunto il cornicione che dà su Via dell’Agnolo, da dove lanciavano ogni oggetto contundente su chiunque cercasse di avvicinarsi al portone d’ingresso, tanto che le forze dell’ordine erano state costrette ad aprire il fuoco presumibilmente a scopo intimidatorio. Corremmo subito sul posto, mi piazzai in mezzo alla strada (con il fango a mezza gamba) proprio sotto il gruppo numeroso dei detenuti in subbuglio schierati sul cornicione e cominciai a parlare con loro, invitandoli, con autorità e decisione, a desistere dal loro comportamento, che poteva ripercuotersi soltanto ed esclusivamente a loro danno. Alla mia vista, turbati anche dalla mia decisione, essi cessarono immediatamente ogni ulteriore atto di violenza e chiesero che mi volevano con loro, per potermi esternare i loro desideri e le loro preghiere. Fornii loro una prova della mia lealtà e sincerità, liberando due loro compagni, che venivano tenuti strettamente ammanettati dai Carabinieri, e provvedendo a ricondurli in carcere, da solo, privi di manette e previa loro promessa che mi avrebbero disciplinatamente seguito e anch’io mi introdussi dentro l’Istituto. Entrai una prima ed una seconda volta – nonostante l’opposizione del Capitano dei Carabinieri che voleva impedirmelo nel timore che io potessi essere preso come ostaggio per parlare con loro a cuore aperto ascoltandone tutti i bisogni ed ogni loro preoccupazione. Fu quando venni avvertito che i detenuti minacciavano d’incendiare il carcere, che mi introdussi fulmineamente dentro l’Istituto, portando con me fino all’interno il solo sanitario della Casa Penale. Seguendo un percorso irto di ostacoli e barricate, tallonato da un gruppo di detenuti sempre più numerosi, raggiunsi il centro dello stabilimento, dove maggiormente era l’effervescenza e il disordine. Salii ivi all’ultimo piano della Sezione, da dove parlai loro per circa due ore spesso interrotto e contrastato dai più facinorosi, fino a quando, con l’aiuto di Dio, riuscii a persuaderli, tanto da essere alla fine assicurato formalmente che ogni scompiglio era da considerarsi ormai definitivamente cessato, per rispetto soprattutto alla mia persona che per ben tre anni li aveva sempre aiutati, sorretti, consigliati e confortati”.
Il leale e costante rapporto con la popolazione detenuta gli consentì di parlare con loro a cuore aperto ascoltandone tutti i bisogni ed ogni loro preoccupazione, riuscendo senza alcun intervento della forza pubblica a convincere alla resa i detenuti in rivolta.
Per il salvataggio eroico del figlio e della domestica del Dott. Pasciolla, il 16 febbraio 1967, il Sindaco Bargellini ringraziò Ferlito “per l’alto senso di civica e umana solidarietà”, trasmettendo gli atti alla Giunta di Firenze che, con delibera del 29 agosto dello stesso anno, lo propose per una ricompensa al valor civile.
A tal proposito voglio ricordare come nelle ultime settimane abbiamo ritrovato grazie soprattutto al personale dell’Archivio Storico della Polizia Municipale di Firenze, creato e gestito dall’Ufficio Archivio e Trasparenza del Comando di Palazzo Guadagni, il fascicolo originale delle indagini, che sembrava scomparso del tutto,
Peccato che nessun riconoscimento gli fu concesso, nonostante le notizie apparse sui giornali. Il Comune di Firenze, riconoscente, oggi lo fa, dopo 50 anni, con questa targa posta a perenne ricordo, grazie all’interessamento della Presidente del Consiglio Comunale Caterina Biti.
In questa occasione vogliamo anche ricordare l’apporto dato dalle Suore che operavano nel Carcere femminile di Santa Verdiana. Di quelle Suore oggi è ancora in vita una, di 85 anni, che vive nel convento di Fiesole.
Una detenuta qualche giorno dopo scrisse una lettera a La Nazione per ringraziare una di queste Suore, all’epoca già 80nne: “Suor Concettina – scrive la detenuta – ha conosciuto e confortato centinaia e centinaia di recluse che negli ultimi sessant’anni sono passate dal carcere di Santa Verdiana. È qui dall’inizio del secolo che Suor Concettina offre la sua fede e la sua opera tra le mura del carcere femminile fiorentino, ma la sua missione non si è conclusa perché resterà a Santa Verdiana come dice, ‘fino a quando piacerà al Signore’. Esempio di una volontà che non è stata intaccata nemmeno dalla fatica e dai disagi provocati dall’alluvione. Da un mese queste Suore hanno lasciato il rosario per i badili e le scope. Sembrano quasi formiche tanto continuo e silenzioso è il lavoro che fanno per cancellare dai muri, sui pavimenti, dappertutto, i segni oleosi e sporchi lasciati dall’acqua melmosa. Sono Suore che appartengono all’Istituto delle Giuseppine, e una delle loro regole è sempre stata quella dell’ordine, anche dei loro effetti personali. Ma anche questa regola è stata infranta per non perdere tempo prezioso: se non fosse per una piccola cuffia che hanno in testa, quando lavorano sono vestite come recluse, con l’abito a strisce. Se la mia esperienza in carcere non è stata del tutto negativo, molto merito è di quelle formiche. Il 4 novembre a Santa Verdiana avevamo una cinquantina di donne e tra queste una trentina erano minorate fisiche e quattro ergastolane. La piena ci sorprese insieme a 12 suore e 3 agenti di custodia. Potete immaginare cosa sarebbe successo se non fossero state loro a darci l’esempio. In particolare la Madre superiora, Suor Celeste, mantenne una calma esemplare e non esitò a scendere con l’acqua alla gola al piano terreno per convincere, salvare molte delle minorate, impietrite dalla paura. E subito dopo l’alluvione la Madre Superiora Generale, Suor Bernardina, fece di tutto per aiutarci, provvedendo anche al rifornimento dell’acqua e del pane. Un altro esempio della riconoscenza che le recluse hanno per le Suore del carcere lo si può avere dal desiderio espresso da quelle che sono state trasferite in altri prigioni, di tornare a scontare la loro pena a Santa Verdiana”.
Anche alla loro memoria e ai loro atti oggi, con questa cerimonia, rendiamo solenne omaggio.
Riprese video di Mattia Lattanzi.
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